La curiosità del mese a cura di Gabriele Ghisellini Pensate di prendere la mira con un fucile e sperare di centrare un bersaglio grande un solo centimetro, e lontano 2000 km.Difficile? Sì, e non è tutto.Per aggiungere un po’ di brivido, il bersaglio si sta muovendo velocissimo e voi, prima di sparare, dovete tenerne conto.Sembra una cosa impossibile, eppure è proprio quello che la sonda New Horizon, della NASA, è riuscita a fare, fotografando come previsto il corpo celeste più lontano mai esplorato dall’uomo: Ultima Thule. New Horizon: è il nome della sonda, lanciata nel gennaio 2006, progettata per raggiungere e studiare Plutone e il suo satellite Caronte, fare una mappa della loro superficie e analizzare la loro atmosfera. La sonda, dopo l’accensione del terzo stadio detiene il record di velocità nel lasciare la Terra: 16,3 km/s, cioe` piu` di 58.000 km all’ora. Plutone: fino a qualche anno fa era il più lontano dei pianeti in orbita attorno al Sole, ma poi fu declassato a corpo minore del Sistema Solare proprio nel 2006, l’anno del lancio di New Horizon.La ragione? In quegli anni si scoprirono altri corpi grandi altrettanto e anche più di Plutone che appartenevano alla cosiddetta “Fascia di Kuiper“, e si decise che anche Plutone ne faceva parte. Luglio 2015: New Horizon finalmente raggiunge Plutone, e lo fotografa da una distanza minima di 12.500 km. Per raggiungerlo ha usufruito di una spintarella gravitazionale da parte di Giove, che ha permesso di accorciare il viaggio di un paio di anni. Ultima Thule: così è chiamato il corpo celeste raggiunto dalla New Horizon il primo gennaio 2019. Come spesso succede il nome Ultima Thule ha origine da leggende antiche, dal nome di un’isola (Thule) che si troverebbe nella parte nord dell’oceano Atlantico e visitata da viaggiatori partiti dall’odierna Marsiglia nel 330 a.C. Non si è ancora capito se questa isola leggendaria fosse la Groenlandia, oppure l’Islanda o una delle piccole isole […]
La curiosità del mese a cura di Tomaso Belloni Si è molto parlato della “cometa di Natale” nel mese di dicembre 2018.Questo oggetto e il suo passaggio natalizio ci permette di affrontare un paio di argomenti interessanti.Innanzitutto la cometa: il suo nome ufficiale è 46P Wirtanen.Carl Wirtanen è chi l’ha scoperta nel 1948, da cui il nome. Ma perchè 46P? La convenzione per i nomi delle comete, in vigore da quasi un quarto di secolo, prevede una lettera maiuscola che indica il tipo di cometa (P sta per cometa periodica) preceduta da un numero: in questo caso 46 significa la quarantaseiesima cometa periodica in ordine di scoperta.Poi dovrebbe venire l’anno e il semi-mese di scoperta, quindi il nome completo sarebbe 46P/1948 A1 Wirtanen: la 46ma cometa periodica, scoperta da Wirtanen nei primi quindici giorni del 1948, la prima in queste due settimane.Si tratta di un oggettino di diametro poco più di un chilometro in orbita intorno al sole con un periodo di circa cinque anni, cinque mesi e otto giorni.Nel punto più lontano della sua orbita (l’afelio) raggiunge più di cinque unità astronomiche dal sole (l’unità astronomica è la distanza della Terra dal Sole), nel punto più vicino (perielio) si riducono a una. Una cometa aumenta la sua luminosità quando si avvicina al sole; per questa cometa il punto più vicino è stato il 12 dicembre del 2018. Il prossimo sarà ovviamente nel 2023.Vista dalla terra sarà al massimo della sua intensità non esattamente al perielio: il picco è stato infatti il 16 dicembre 2018.Qui cominciano i problemi. Si era detto che avrebbe raggiunto una magnitudine massima di circa 3, ma cosa significa una magnitudine di 3 e perchè nonostante i media abbiano detto che era molto luminosa e molto grande io a occhio nudo dall’Osservatorio di Brera a Merate non ho visto niente?Cominciamo con la magnitudine e partiamo da lontano.Fino a tempi relativamente recenti le stelle si sono osservate con l’occhio, dopo Galileo Galilei anche […]
La curiosità del mese a cura di Gabriele Ghisellini Lampi improvvisi di onde radio che durano poco più di un millisecondo. Da direzioni imprevedibili del cielo. Rimasti sconosciuti per tanto tempo, e scoperti nel 2007, quando il radiotelescopio australiano di Parkes (Fig. 1) è finalmente riuscito a rivelare segnali così brevi.All’inizio la scoperta è stata circondata da scetticismo, perché un lampo, come le rondini, non fa primavera.Dopo questo primo segnale, ne sono stati ricevuti degli altri, ma stranamente sempre attorno all’ora di pranzo.Lo scetticismo aumentò, fino a quando si scoprì che quelli che sembravano dei beep cosmici provenivano in realtà dai forni a microonde della cucina dell’osservatorio. Infatti, quando si apre lo sportello di un forno a microonde, questo si spegne automaticamente, ma ci mette circa un millisecondo a farlo.Grande delusione. Ma la storia non era finita. Dopo qualche tempo si scoprirono altri beep cosmici, e questa volta non c’erano forni a microonde nelle vicinanze. Il fenomeno doveva essere preso sul serio. Altri radiotelescopi, oltre a quello australiano, si misero in ascolto, e anche loro rivelarono altri beep, molto simili al primo, e ne abbiamo raccontato nella curiosità del settembre 2013 (Beep radio dal cosmo profondo: un mistero).Nel 2011 anche il grande radiotelescopio di Arecibo (Fig. 2) ne scoprì uno, e finalmente si riuscì a determinare con precisione la direzione di arrivo del lampo radio. Si puntarono subito dei telescopi normali, per luce visibile, e proprio nella direzione di arrivo del lampo radio si vide una galassia e si poté misurarne la distanza: più di due miliardi di anni luce. Come fa il lampo radio ad essere così forte, se proviene da così lontano? Evidentemente la sorgente di onde radio, il trasmettitore, deve avere una potenza grandissima.Nel breve istante di un millisecondo, deve produrre più energia di quanta ne produce il nostro Sole in un mese.Se queste sorgenti fossero all’interno della nostra Galassia, potremmo rivelarle con un cellulare. Ci sarebbe abbastanza “campo” in tutta la Via Lattea …Da qualche […]
La curiosità del mese a cura di Tomaso Belloni L’esplorazione planetaria si sta spingendo sempre più in quella che fino a qualche anno fa era fantascienza.Questo mese proviamo ad andare un po’ nel dettaglio di una spettacolare missione giapponese.L’asteroide 162173 Ryugu, scoperto nel 1999, è uno degli oggetti del sistema solare pericolosi per la terra, dato che la sua orbita di 475 giorni interseca la nostra.Si tratta di un oggetto di forma simile a un diamante, del diametro di solo un chilometro e di tipo piuttosto raro.Il suo nome Ryugu deriva da quello del palazzo sottomarino dove abita il dio drago del mare nella mitologia giapponese. L’agenzia spaziale giapponese JAXA, forte del successo della missione Hayabusa (“Falco Pellegrino”), ha selezionato Ryugu come obiettivo della nuova sonda Hayabusa 2.Lanciata nel dicembre del 2014, Hayabusa 2 ha raggiunto Ryugu nel giugno di quest’anno dopo un lungo “inseguimento”.Resterà in orbita intorno all’asteroide per un anno e mezzo e poi rientrerà sulla terra alla fine del 2020, proprio come aveva fatto Hayabusa. Di solito le sonde non ritornano, ma c’è un buon motivo in questo caso.Nel settembre 2018, il mese scorso, Hayabusa ha sganciato due piccoli rover, dai roboanti nomi di Rover-1A e Rover-1B.Si tratta di due oggetti a forma di pentola, 18 cm di diametro e 7 cm di altezza.Sono stati sganciati quando la sonda orbitava a 55 metri dalla superficie di Ryugu.Ciascun rover è equipaggiato di due fotocamere e un termometro e hanno inviato delle immagini molto suggestive. Il nome Rover suggerisce che si spostino, ma come fanno senza “zampe” o ruote?Saltellano come rane utilizzando delle masse in rotazione al loro interno e sfruttando la bassissima gravità alla superficie di Ryugu.Al momento di scrivere stanno ancora zompando sull’asteroide. A inizio ottobre 2018 ha poi sganciato l’esploratore mobile di superfici di asteroidi (MASCOT), più grande e dotato di strumenti più sofisticati, inclusa una fotocamera per osservare nel dettaglio la superficie.Ha funzionato per circa 17 ore, la durata delle sue batterie non ricaricabili (niente pannelli solari) e si è spostato una volta rotolando per fare misure in […]
La curiosità del mese a cura di Gabriele Ghisellini Tre anni fa abbiamo festeggiato i 100 anni dalla pubblicazione della relatività generale, e l’abbiamo fatto regalandoci, e regalando ad Einstein, la scoperta delle onde gravitazionali.Un trionfo epocale non solo del pensiero di Einstein, ma anche dell’ingegno di tanti fisici e ingegneri che sono stati capaci di costruire degli strumenti capaci di rivelare l’effetto minuscolo che le onde gravitazionali imprimono nello spazio.Adesso è la volta di un’altra predizione di Einstein a venire provata oltre ogni ragionevole dubbio: lo spostamento verso il rosso della luce generata vicino un buco nero. Che la luce risentisse della gravità era ben noto, e già nel 1959 Pound e Rebka, due scienziati americani, avevano misurato di quanto la luce cambia la sua frequenza, cioè il suo colore, passando dal tetto allo scantinato di un edificio di Harward, cioè “cadendo” da un’altezza di 23 metri.Quando la luce scendeva verso il basso diventava più blu, mentre se saliva dallo scantinato al tetto, diventava più rossa. E proprio della quantità prevista dalla relatività generale di Einstein.È come se la luce “faticasse” a viaggiare contro la gravità quando sale, e ricevesse “una spinta” quando invece scende (ma non ditelo a scienziati professionisti, questa à solo un’analogia …).La luce non può cambiare la sua velocità, che rimane la stessa, ma cambia la sua energia, cioè la sua frequenza, cioè il suo colore. Quello che è stato annunciato lo scorso luglio è simile, ma l’esperimento era molto più grande, enormemente più grande, visto che non si è usata la gravitè della Terra, ma una gravità molto molto maggiore.Il fatto è questo: nel centro della Via Lattea si annida un mostro.Coperto da polveri che lo nascondono alla nostra vista, ma non ai nostri strumenti per l’infrarosso.In questa banda riusciamo a vederlo. Beh, vederlo è una parola grossa, visto che è per definizione invisibile. È un buco nero. Enorme. Distante da noi 26 mila anni luce. Vuol dire che quando la […]
La curiosità del mese a cura di Tomaso Belloni Il nostro Sole è una stella abbastanza tranquilla, ma non completamente.Mentre l’immagine del sole che abbiamo nella luce visibile mostra soltanto delle macchie solari, osservando il sole a diverse lunghezze d’onda la situazione cambia radicalmente.Le macchie solari sono collegate all’attività solare e costituiscono la base delle eiezioni coronali.Il sole infatti non si limita alla palla gialla che vediamo in cielo: c’è una parte del sole costituita da gas molto caldo e a bassa densità che si estende ben oltre il disco che conosciamo: la corona solare. Da questa si origina il vento solare, un flusso di particelle cariche che si estende fino all’orbita della terra e oltre.Sono le particelle del vento solare che, riuscendo a evitare lo schermo del campo magnetico terrestre, provocano le aurore.Il vento solare è relativamente costante, ma l’attività del sole causa eiezioni coronali, cioè incrementi nell’emissione di particelle che possono essere molto intensi e in periodi di attività possono essere diversi ogni giorno.L’attività del Sole segue le macchie solari e quindi come queste ha un periodo di undici anni, passando da un minimo di attività a un massimo dopo 5.5 anni per raggiungere un nuovo minimo 5.5 anni dopo. Il ciclo solare attuale sta per finire e siamo al minimo di attività. Le eiezioni coronali, soprattutto quelle giganti, provocano delle vere e proprie tempeste nel sistema solare e l’arrivo di grandi quantità di particelle cariche ha degli effetti sulla terra.Il campo magnetico ci protegge, ma non nelle regioni polari: in corrispondenza di una tempesta associata a una eiezione gigante vengono sospesi i voli commerciali su rotte polari, troppo pericolosi per la radiazione.Ma effetti nocivi si registrano anche sui satelliti artificiali intorno alla terra, per cui è meglio tenere sotto controllo l’attività del Sole.Questo è stato fatto per anni tramite strumenti su satelliti e sonde artificiali, ma da pochi giorni la NASA ha lanciato una nuova sonda molto interessante per lo studio del Sole e […]
La curiosità del mese a cura di Gabriele Ghisellini Vi ricordate il tunnel della Gelmini? Uno svarione che è rimasto nella storia.Doveva permettere ai neutrini di andare sottoterra dal CERN, dove nascevano, ai laboratori del Gran Sasso … e permettere di misurare la loro velocità. E allora sembrava che andassero più veloci della luce! Insomma, una gaffe dietro l’altra … Dopo un bel po’ si scoprì che un connettore era attaccato male a qualche computer, e la velocità dei neutrini torna ad essere più piccola di quella della luce. E la Gelmini si scusò: non c’è nessun tunnel!Non ce n’è nessun bisogno: i neutrini possono viaggiare senza interagire con niente perfino da dentro il nucleo del Sole e attraversano tutta la Terra senza salutare. Per beccarne uno si fa una fatica boia, perché la probabilità che si scontrino con qualche atomo è minuscola.Alzate un dito verso il Sole: ogni secondo il vostro dito, anzi la punta del dito, diciamo l’unghia, è attraversata da qualche miliardo di neutrini. Ogni secondo.Eppure vi sentite ancora bene, no? E non è neanche necessario che sia giorno, perché anche di notte i neutrini prodotti all’interno del Sole trapassano la Terra, e poi il vostro dito … Il Sole ne fa tanti, ma non sono ancora niente in confronto a quelli fatti da una stella quando scoppia e diventa una Supernova.In un millisecondo o poco più ne vengono prodotti tanti quanto sono gli atomi della stella: più di 1057, che è un numero difficile da immaginare: è un 1 seguito da 57 zeri.E nel 1987, il 23 febbraio, una dozzina di questi neutrini furono rivelati da uno strumento in Giappone, simultaneamente allo scoppio della Supernova. O meglio, simultaneamente all’arrivo della luce di questa Supernova, che per arrivare qui da noi ci mise 150 mila anni. Era partita più o meno con la comparsa di Homo Sapiens. Questa era, fino a qualche mese fa, l’unica sorgente al di fuori della nostra Galassia per cui avevamo rivelato sia la luce sia i neutrini. E per dire che provenivano […]
La curiosità del mese a cura di Tomaso Belloni Il primo satellite artificiale è stato lo Sputnik 1, lanciato in orbita ellittica intorno alla terra nell’ottobre del 1957 dall’allora Unione Sovietica. Era un sfera di metallo di 58 centimetri di diametro con quattro antenne per comunicare con la terra, pesava 84 chili e aveva una potenza di 1 watt.Si trattava di un oggetto molto semplice, persino il nome Sputnik significa semplicemente “satellite”.È rimasto in orbita solo per tre settimane, ma il suo lancio ha fatto partire la corsa allo spazio con gli Stati Uniti.Da allora i satelliti artificiali sono diventati sempre più grandi e complessi.Il Compton Gamma Ray Observatory (CGRO), satellite per astronomia in raggi gamma lanciato dalla NASA con lo Space Shuttle nel 1991 pesava 17 tonnellate, consumava 2000 watt ed era grande come un autobus.Di questo passo l’immaginazione fa venire in mente i grandi incrociatori stellari dell’Impero Galattico in Star Wars.Negli ultimi anni però c’è stata una parziale inversione di tendenza e stanno diventando sempre più popolari i “CubeSat“.Si tratta di satelliti in miniatura costituiti da uno o più unità cubiche di 10 cm di lato. Peso massimo 1.33 chili per cubo.Ovviamente hanno delle funzionalità limitate, ma se sono sufficienti perchè scegliere opzioni più grandi (e costose)?Tipicamente questi micro satelliti vengono portati sulla Stazione Spaziale Internazionale come cargo e messi nella loro orbita dalla ISS.Oppure vengono aggiunti al carico di un razzo che deve mettere in orbita satelliti più grandi, dopo tutto occupano poco spazio. In entrambi i casi il meccanismo per eiettarli è costituito da una molla, per quanto sofisticata.Finora sono stati lanciati circa 2000 CubeSat e il record di lancio appartiere alla Agenzia Spaziale Indiana (ISRO) che insieme a tre satelliti “normali” ha messo in orbita con lo stesso razzo 101 CubeSats simultaneamente.Nel maggio di quest’anno insieme al modulo Insight (vedi Wikipedia) per l’esplorazione di Marte sono stati lanciati due CubeSat (MarCO A e MarCO B) che aiuteranno InSight a comunicare con la terra.È il primo caso di CubeSats che […]
La curiosità del mese a cura di Gabriele Ghisellini Richard Feynman, uno dei più grandi fisici del secondo dopoguerra, disse una volta che la più grande scoperta della fisica moderna e sicuramente la più fruttifera, era che tutto ciò che ci circonda è fatto di atomi e di fotoni, i quanti di luce. Con questa ipotesi si può spiegare il più gran numero di fenomeni.La realtà è fatta da mattoncini, tutti uguali, che obbediscono a 4 regole, le 4 forze della natura. Sono le loro combinazioni diverse a fare la differenza, anzi le differenze … tra il Sole e una spiaggia, tra un traliccio dell’alta tensione e la panna montata.Quindi i numeri contano. Dobbiamo anche pensare che quando mettiamo insieme questi mattoncini di lego che sono gli atomi, non otteniamo una cosa che è la banale somma di tot mattoncini. Otteniamo di più, otteniamo una cosa che è maggiore della somma delle parti.Questo perchè dobbiamo considerare anche le interazioni tra le varie parti.Lo sappiamo bene noi, organismi multicellulari evoluti. I miliardi di cellule di cui siamo fatti non fanno solo, per milardi di volte, quello che fa una cellula singola. Fanno di più. Quindi qualità=quantità? Forse sì.Quindi facciamo, un po’ sul serio, un po’ per divertimento, una carrelata su qualche numero interessante. 2 miliardi e mezzo di secondi: la durata media di una vita umana … piu` o meno 4200 settimane. Misurata in settimane, la vita media sembra più breve, vero?Più o meno, 2 miliardi e mezzo è anche il numero totale dei battiti del nostro cuore. 750 mila miliardi di Km: i chilometri percorsi dalla luce nell’arco di una vita umana (circa 80 anni). Nella costellazione del Cigno c’è una stella, chiamata dal nome poco romantico di SAO 48193, che è distante da noi 81 anni luce. Verso la fine della nostra vita riceveremo la luce che è partita da questa stella quando siamo nati. E contemporaneamente, la stella e magari un […]
La curiosità del mese a cura di Tomaso Belloni Il 19 ottobre 2017 i telescopi del sistema Pan-STARSS alle Hawaii, dedicati alla ricerca di oggetti celesti in movimento (comete, asteroidi …) o variabili, ha scoperto un nuovo oggetto nel sistema solare, che aveva da poco passato il punto di avvicinamento massimo al Sole.Prima classificato come cometa e poco dopo come asteroide, si è presto capito che si tratta di un asteroide molto particolare per via della sua orbita iperbolica.Gli asteroidi hanno orbite ellittiche, ovvero orbitano intorno al Sole.Un’orbita iperbolica, che porta un oggetto a uscire dal sistema solare, si può osservare nel caso di deviazioni dovute all’incontro ravvicinato con un pianeta (solo dieci giorni dopo ne è stato scoperto un altro con traiettoria iperbolica, ma non così estremo da meritare la stessa attenzione), ma in questo caso i parametri sono troppo estremi. L’unica conclusione rimasta è che non solo l’asteroide lascerà per sempre il sistema solare, ma che è arrivato da fuori: il primo asteroide interstellare.Per esso è stata inventata una nuova nomenclatura 1I/2017 U1 e gli si è assegnato il nome “’Oumuamua“, che in lingua hawaiiana significa esploratore, primo messaggero.Il primo oggetto conosciuto che “viene da fuori”.La sua traiettoria proviene dalla direzione della stella Vega, ma non è possibile stabilire con precisione la sua origine.In realtà alla velocità stimata ci sarebbero voluti 600mila anni per arrivare da Vega e a quel tempo Vega non era dove la vediamo ora.Sembra possibile che ’Oumuamua abbia girato per la nostra galassia per miliardi di anni e chissà da che sistema proviene. Molto esotico.Adesso si sta allontanando, ma secondo le leggi della meccanica celeste sta anche rallentando, per cui ci vorranno 20mila anni perchè esca dal nostro dal sistema solare.Interessante anche quello che si può capire sulla sua struttura.Ovviamente alla distanza a cui si trova non è possibile osservare la sua forma, ma dalle variazioni della sua luminosità (ovvero della luce che riflette dal sole) si capisce che sta ruotando in un modo complesso e non intorno a uno dei sui assi […]