La curiosità del mese a cura di Daniele Spiga
Diciamo la verità: quando immaginiamo i viaggi interplanetari, di solito ci vengono in mente razzi spinti da gigantesche esplosioni di carburante che fuoriescono da razzi di enorme potenza. A questi sistemi impulsivi, volti a imprimere rapidi cambi di velocità ai veicoli spaziali, si sta affiancando l’utilizzo di sistemi in grado di fornire una spinta più continua e graduale, come i motori a ioni. Ma… avreste mai pensato di utilizzare una vela per imprimere una spinta a una sonda interplanetaria? Del resto, per millenni e fino a metà del XIX secolo, l’Umanità ha usato unicamente il vento nelle vele per solcare gli oceani[1], perché non usarle nello spazio? Certo, lì non ci sono correnti d’aria, ma si può sfruttare la pressione di radiazione solare, evitando le limitazioni del propellente che, oltre a essere pesante e dispendioso, presto o tardi si esaurisce.
Come funziona una vela solare? La luce emessa del Sole a tutte le lunghezze d’onda, oltre all’energia, trasporta quantità di moto. Ogni fotone (un “pacchetto” di radiazione) trasporta un po’ di impulso di movimento che viene trasmesso a una superficie quando lo assorbe (o meglio ancora, quando lo riflette), che pertanto tenderà a mettersi in moto nella direzione opposta alla sorgente. Ecco, una vela solare è semplicemente un grande specchio (Figura 1) dispiegato nello spazio, montato su un veicolo spaziale. Ed essendo riflettente, acquista fino al doppio dell’impulso del fotone (Figura 2): quello che il fotone possedeva, più quello che ha acquisito al “rimbalzo”. E oltre alla quantità di moto totale, anche l’energia si conserva, in quanto il fotone risente dell’effetto Doppler dovuto al movimento impresso alla vela e pertanto ritorna indietro spostato verso il rosso, ovvero con un’energia leggermente inferiore. Se desiderate approfondire (ma a vostro rischio e pericolo…) leggete qui[2].
In definitiva, il flusso di radiazione dal Sole eserciterà una pressione diretta verso l’esterno, proporzionale all’intensità di illuminazione per unità di superficie. Attenzione: la pressione non è esercitata dal vento solare, che è un flusso di particelle cariche proveniente dal Sole, ma il cui effetto sulla vela è inferiore di parecchi ordini di grandezza (anche se sembrerebbe naturale associare il termine “vento” a una “vela”). Moltiplicando la pressione della radiazione per l’area della vela perpendicolare alla direzione del Sole si ottiene la spinta che permette di contrastare la sua gravità.
La pressione di radiazione fu prevista dal fisico scozzese J.C. Maxwell nel 1871, come conseguenza delle leggi dell’elettromagnetismo da lui stesso scritte, e osservata per la prima volta da Lebedev, Nichols e Hull nel 1900-1901. Ma l’idea di usare una vela solare era già venuta nel 1610 al grande Keplero, il quale aveva osservato (e lo scrive in una lettera a Galileo come commento al Sidereus Nuncius dell’anno prima) come una delle code delle comete punti sempre in direzione opposta al Sole, come se venisse “soffiata” dal Sole. Oggi sappiamo che Keplero, pur non conoscendo il campo elettromagnetico, ci aveva visto giusto, tanto per cambiare: la pressione di radiazione determina la formazione delle code ioniche delle comete (Figura 3) e ha un ruolo importante nel movimento a lungo termine dei corpi minori del Sistema Solare, come comete, asteroidi, granelli di polvere, e anche dei satelliti artificiali e delle sonde che abbiamo messo in orbita. Stiamo parlando infatti di una forza molto flebile in confronto alla gravità: alla distanza della Terra, 1 m^2 di superficie riflettente riceve una spinta dal Sole di soli 9.3 micronewton (meno di un milligrammo-peso), mentre 1 kg di massa è soggetto a un’attrazione da parte del Sole di 6 millinewton, quasi 650 volte maggiore. Da questo confronto, capite perché una vela solare deve essere molto grande e molto leggera per opporsi alla gravità in maniera efficace.
Ora, finché la vela è ripiegata nel veicolo spaziale, questo si muove solo sotto l’effetto della gravità del Sole, che come sappiamo segue la formula di Newton F = GMm/d^2 (che decresce con il quadrato della distanza dal Sole, è proporzionale alla sua massa, ed è diretta verso di esso). In tali condizioni, il veicolo descrive tipicamente un’orbita ellittica. Ma quando la vela viene dispiegata, la spinta esercitata dalla radiazione solare inizia ad agire in direzione opposta, con un’intensità proporzionale all’intensità di illuminazione del Sole. Ma anche l’intensità luminosa del Sole, e quindi la pressione di radiazione, decresce come 1/d^2! Quindi, a vela dispiegata, la somma delle due forze dipenderà ancora da 1/d^2, ma sarà inferiore alla gravità del Sole quindi… è come se l’apertura della vela “alleggerisse” il Sole! A questo punto, semplici calcoli mostrano che se il veicolo si trovava su un’orbita circolare (ad esempio, quella terrestre), all’apertura della vela si immetterà su un’orbita di trasferimento monoellittica bitangente con un semiasse maggiore molto più grande, proiettandola verso le orbite dei pianeti esterni (come la traiettoria verde scuro in Figura 4, a condizione che la vela rimanga sempre radialmente allineata dalla parte opposta al Sole. Certo, questo tipo di rotta è già in uso per le attuali sonde interplanetarie equipaggiate di motori a reazione, però la pressione di radiazione solare non costa nulla, non pesa nulla, ma soprattutto è praticamente inesauribile. E scusate se è poco.
Ma il bello deve ancora arrivare: agendo sull’orientazione della vela, è possibile modificare la direzione della spinta in modo da acquistare anche momento angolare, ovvero accelerare anche in direzione trasversale al vento, proprio come su una barca a vela, ottenendo una elegante traiettoria a spirale, cosa impossibile da ottenere con la sola gravità. E questo consente di raggiungere un pianeta anche quando si trova fuori dalle consuete finestre di lancio, con un notevole risparmio di tempo di attesa (Figura 4); oppure, rivolgendo la vela in direzione opposta alla direzione di movimento è possibile rallentare, ad esempio per raggiungere Mercurio o Venere. O ancora, orientando la vela fuori dal piano del Sistema Solare, è possibile cambiare l’inclinazione dell’orbita della sonda in maniera molto semplice. Insomma, le vele solari consentono manovre quasi illimitate e molto più flessibili di quelle “impulsive” tipiche dei motori a reazione, e se la vela è davvero molto grande (abbastanza da “dimezzare” la massa apparente del Sole)… si può acquisire abbastanza spinta da abbandonare il Sistema Solare e addentrarsi nello spazio interstellare (Figura 5), senza superare la velocità di fuga e senza consumare un solo grammo di propellente!
Ma allora, se funzionano così bene, perché non usiamo già ora le vele per viaggiare nello spazio? Perché sono una tecnica in via di sviluppo ma ancora lontana dall’essere matura, per via di varie difficoltà di carattere ingegneristico: la prima è che, per esercitare una spinta utile, una vela deve misurare svariate decine di m^2 (per un Cubesat) fino a alcuni km^2 (per veicoli in grado di trasportare astronauti) quindi deve essere molto sottile (alcuni millesimi di mm) ma molto resistente. Finora si sono adottati sottilissimi fogli di alluminio o di plastica alluminata, ma ultimamente si stanno considerando metalli leggeri come il litio, fibre di carbonio oppure un materiale eccezionalmente resistente e avente lo spessore di un singolo atomo: il grafene. Tuttavia, realizzare fogli di grafene da decine di metri quadrati sembra ancora oltre le attuali tecnologie.
La seconda difficoltà è che un veicolo a vele solari non funzionerebbe a lungo nelle vicinanze della Terra, perché la pur tenue resistenza dell’atmosfera ad alta quota sulla vela la frenerebbe rapidamente: va sempre messo in orbita preliminare con dei sistemi a reazione convenzionali.
La terza è che fino quel momento la vela deve essere ripiegata, e il dispiegamento di una vela di tali dimensioni nello spazio è un’operazione che può andare male in mille modi diversi. La missione NEA-scout, lanciata l’anno scorso “chiedendo un passaggio” alla missione lunare Artemis I, ha incontrato appunto il problema del dispiegamento che ne ha causato il fallimento.
Tuttavia, ci sono stati anche degli esperimenti coronati da successo: la piccola sonda giapponese IKAROS, ad esempio, che ha raggiunto Venere nel 2010 con una vela quadrata da 20 m di diagonale, oppure la Nanosail-D2 che ha operato per alcuni mesi in orbita terrestre nel 2011. E in tempi più recenti, le missioni Lightsail-1 (2015) e Lightsail-2 (2019), che hanno dispiegato due vele da 32 m^2 con successo. In particolare, Lightsail-2 (Figura 6) ha utilizzato la sola propulsione solare per “allungare” la propria orbita intorno alla Terra. Vale la pena di notare che il progetto Lightsail è stato promosso dalla Planetary Society, associazione non-profit fondata, tra gli altri, da Carl Sagan, ed è interamente finanziata da crowdfunding.
Insomma, tra mille difficoltà, anche questa impresa in cui il genere umano si sta letteralmente “imbarcando” sta lentamente progredendo. E chissà che un giorno non sia proprio una vela la prima cosa, appartenente alla nostra specie, che delle civiltà aliene vedranno apparire nel loro cielo (… povere loro…!). Rimane il solo non trascurabile problema che la radiazione solare diminuisce con il quadrato della distanza dal Sole, quindi… non solo i viaggi interplanetari durerebbero comunque diversi anni ma per di più, allontanandoci dal Sistema Solare ci verrebbe a mancare sia l’accelerazione che la capacità di manovra.
Ed ecco qui che l’ingegno umano arriva a superare anche questo ostacolo. E se, come fonte di pressione di radiazione, usassimo un laser? È il progetto Breakthrough Starshot fondato da Stephen Hawking, Yuri Milner e Mark Zuckerberg. Ma di questo parleremo un’altra volta. Fino ad allora, vento (anzi, luce) alle vele!
[1] a parte i remi… con i quali però non si va molto lontano. I canottieri non se ne abbiano a male.
[2] il fenomeno è descrivibile come un effetto Compton, ma con la vela al posto dell’elettrone; un fotone di lunghezza d’onda l0, dopo una deviazione ad un angolo q, ha una lunghezza d’onda leggermente superiore l = l0 + lC(1-cosq), con una lunghezza d’onda Compton pari a lC = h/(Mc), con M = massa della vela, h = costante di Planck, c = velocità della luce.