La curiosità del mese a cura di Luigi Foschini

L’UNESCO (United Nations Educational, Scientific, and Cultural Organization) ha organizzato una serie di eventi nel 2025 in occasione del centenario della meccanica quantistica (Figura 1). Questa branca della fisica moderna ha avuto, ed ha tutt’oggi, un’importanza fondamentale nella nascita e sviluppo dell’astrofisica.
Vorrei quindi ripercorrere le tappe principali della sua nascita e dell’impatto significativo sull’astronomia, tanto da far nascere l’astrofisica.
Alla fine del XIX secolo, uno dei principali problemi della fisica era di capire la distribuzione dell’energia della luce emessa da un metallo incandescente. La teoria classica, basata sull’elettromagnetismo di James Clerk Maxwell, suggeriva che all’aumentare della frequenza, l’energia dovesse diventare infinita. Era la cosiddetta “catastrofe ultravioletta“, cosa che ovviamente non avveniva.
La soluzione fu trovata da Max Planck, che, nel 1900, propose di considerare una distribuzione discreta di energia, fatta di pacchetti (quanti, appunto) proporzionali alla frequenza.
Nel 1905, Albert Einstein – che allora era uno sconosciuto fisico impiegato all’Ufficio Brevetti di Berna (CH) – impiegò i quanti di Planck per spiegare l’effetto fotoelettrico. Si tratta dell’emissione di elettroni da un metallo irradiato con luce ultravioletta ed è un effetto a soglia, ovvero si attiva solo quando la luce ha una certa energia.
Più tardi, nel 1913, Niels Bohr usò i quanti per proporre il suo modello di atomo e spiegare lo spettro dell’idrogeno. L’atomo era come un piccolo sistema solare, con un nucleo di protoni al centro e gli elettroni che si muovevano intorno su orbite circolari (in seguito, Arnold Sommerfeld propose di modificare le orbite in ellittiche). Quando un elettrone assorbiva un quanto di luce (chiamato fotone, dal greco phòs=φῶς, che significa luce), saltava da un’orbita bassa a una più alta, mentre lo emetteva per saltare da un’orbita alta a una più bassa (Figura 2).
Nel 1885, Jakob Balmer aveva osservato che lo spettro ottico dell’idrogeno è composto da una serie di linee di emissione a certe frequenze, indicate con le lettere dell’alfabeto greco (Hα, Hβ, Hγ,…), che seguono una formula matematica empirica (Figura 3 ed equazione 1). Tale serie è oggi chiamata di Balmer, in suo onore.
Bohr, con il suo modello atomico quantistico, riuscì a spiegare tale serie. I numeri quantici n e m indicano le orbite degli elettroni, più alto è il numero e più esterna è l’orbita. Nel caso della serie di Balmer, n=2, mentre m è maggiore o uguale a 3. La linea di emissione Hα si ottiene quando un elettrone nell’orbita m=3 emette un fotone di lunghezza d’onda pari a 656 nm e salta nell’orbita più interna n=2. Viceversa, si ha una linea di assorbimento se l’elettrone in n=2 assorbe un fotone di lunghezza d’onda 656 nm e salta nell’orbita m=3. Il modello di Bohr spiega anche altre serie dell’idrogeno, come la serie di Lyman nell’ultravioletto e la serie di Paschen nell’infrarosso. Tuttavia, anche se andava benissimo per l’idrogeno, le cose si complicavano tremendamente per atomi più complessi.
Inoltre, l’idea di un sistema solare in miniatura spingeva i fisici del tempo a porre le stesse domande usate per il sistema Solare, ovvero come si poteva calcolare l’orbita di un elettrone, visto che non era visibile come un pianeta. Si aggiunga un altro problema: dato che una particella carica accelerata irradia energia, com’era possibile che gli elettroni nelle orbite fossero stabili? Muovendosi di moto accelerato (un moto curvo è sempre accelerato, visto che cambia sempre la direzione), un elettrone avrebbe dovuto perdere energia continuamente e quindi, prima o poi, doveva esaurirla e cadere sul nucleo.
Fu proprio per cercare di rispondere a queste domande che nacque la moderna meccanica quantistica, grazie a Werner Heisenberg.
Come racconta egli stesso nelle sue memorie, a fine maggio del 1925, un terribile raffreddore da fieno lo costrinse a recarsi un paio di settimane sull’isola di Helgoland, nel mare del Nord, tra la Germania e la Danimarca. Facendo passeggiate nella tranquillità di quella piccola isola, Heisenberg comprese la necessità di fondare la meccanica quantistica solo sulle quantità che si potevano osservare, il che richiedeva una radicale modifica della vecchia meccanica quantistica di Bohr e Sommerfeld, visto che era impossibile osservare l’orbita di un elettrone come invece succedeva per un pianeta. Heisenberg scrisse un primo articolo che inviò il 29 luglio alla rivista Zeitschrift für Physik, che lo pubblicò a settembre dello stesso anno (Figura 4).
Questo articolo segna la nascita della meccanica quantistica moderna ed è il riferimento per il centenario dell’UNESCO.
Heisenberg inviò il suo manoscritto a Max Born (curiosità: fu il nonno dell’attrice e cantante Olivia Newton-John), che riconobbe il linguaggio matematico usato – detto delle matrici – e scrisse subito un primo lavoro con il suo collega Pascual Jordan, che fu pubblicato sempre su Zeitschrift für Physik un paio di mesi dopo quello di Heisenberg. Di seguito, i tre collaborarono alla stesura di un terzo articolo, che fu pubblicato ancora sulla stessa rivista a fine anno. Questi tre lavori costituiscono la base di quella che è oggi chiamata formulazione matriciale della meccanica quantistica. L’anno successivo, altri due fisici elaborarono due nuove formulazioni. Erwin Schrödinger propose una formulazione basata sull’equazione d’onda, che oggi è chiamata equazione di Schrödinger in suo onore, mentre Paul A. M. Dirac propose una formulazione basata sulle variabili dinamiche non-commutative, oggi chiamata dei bra e dei ket (deriva dall’inglese bracket, che vuol dire parentesi). Studi successivi dimostrarono poi che le tre formulazioni sono equivalenti tra loro.
È interessante notare che il supervisore di Dirac era Ralph H. Fowler, un geniale fisico e matematico inglese. Fu uno dei primi ad applicare la nuova meccanica quantistica allo studio delle stelle. In particolare, nel 1926, aveva pubblicato un lavoro in cui aveva applicato la statistica quantistica di Fermi-Dirac per comprendere il comportamento delle stelle quando viene a mancare l’espansione dovuta alle reazioni di fusione nucleare e la gravità comprime il plasma in condizioni estreme. Queste stelle sono chiamate nane bianche (si pensa che sia anche la fase finale del nostro Sole), dato che sono piccole e poco luminose. Fowler suggerì che la gravità fosse bilanciata da una pressione elettronica quantistica. La gravità costringeva gli elettroni a collassare verso l’orbita più bassa, ma per il principio di esclusione di Pauli, ciascuna orbita non può avere più di due elettroni. Si crea quindi una pressione elettronica che può controbilanciare la gravità. Tuttavia, Fowler non aveva considerato che così compressi gli elettroni si muovono a velocità relativistiche. La cosa non sfuggì a Subrahmanyan Chandrasekhar, un suo studente, che elaborò un suo lavoro nel 1931 in cui calcolò la massima massa che poteva a vere una nana bianca, cioè 0.91 masse solari (valore oggi ritoccato a 1.44 masse solari).
Nel 1932, James Chadwick scoprì il neutrone, il che portò a cambiamenti nel modello atomico e stimolando nuove idee in astrofisica. I primi furono Walter Baade e Fritz Zwicky, secondo cui era possibile che una stella fosse composta solo da neutroni e che poteva essere il residuo di una supernova. Anche Lev Landau si cimentò sul tema, proponendo però che ciascuna stella avesse un nucleo di neutroni che era anche la sua fonte di energia (a quei tempi era ancora incerto che fosse la fusione nucleare la fonte di energia delle stelle). Questo lavoro attirò l’attenzione di J. Robert Oppenheimer, che fu anche il leader del progetto Manhattan per la costruzione della prima bomba atomica. Oppenheimer aveva studiato a Göttingen, con Max Born come supervisore di dottorato, da cui aveva appreso la nuova meccanica quantistica. Con l’aiuto di uno studente, G. M. Volkoff, e rielaborando le teorie di Richard Tolman, Oppenheimer calcolò la massa massima di una stella di neutroni, ottenendo un valore pari a 0.7 masse solari. Con un altro studente, H. Snyder, studiò anche cosa succedeva per masse maggiori, ovvero per i buchi neri. Oggi, questo valore, chiamato limite di Tolman, Oppenheimer e Volkoff o anche TOV, è circa 2-2.2 masse solari, ottenuto grazie all’osservazione delle onde gravitazionali generate dalla fusione di due stelle di neutroni (GW170817). L’astro risultante eccedeva il limite TOV, per cui è diventato un buco nero.
Ci sarebbero ancora moltissime altre applicazioni della meccanica quantistica in astrofisica. Per concludere, riporto una breve, quanto sommaria, lista. Posso solo sottolineare che la gravità quantistica, ovvero la fusione della teoria quantistica dei campi con la teoria della relatività, è oggi l’elusivo Santo Graal della fisica che nessuno è ancora riuscito a trovare.
Meccanica quantistica per l’astrofisica:
– sorgenti cosmiche di energia (fusione nucleare);
– Spettri di emissione/assorbimento (linee);
– Processi radiativi (sincrotrone, Compton inverso, radiazione di fregamento etc.);
– Materia in condizioni estreme (nane bianche, stelle di neutroni, buchi neri);
– Radiazione di Hawking (buchi neri);
– Materia oscura;
– Energia oscura;
– Cosmologia quantistica;
– Gravità quantistica;
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