
La curiosità del mese a cura di Tomaso Belloni

I telescopi ottici usano specchi (sempre più grandi) per concentrare la luce ed essere più sensibili: praticamente diventano occhi giganti.
Per riflettere, uno specchio deve essere liscio, ma quanto è liscio dipende dalla lunghezza d’onda della radiazione incidente (dopotutto la superficie del mio tavolo è liscia per me, ma certamente non lo è per un piccolissimo afide).
I raggi X hanno una lunghezza d’onda molto inferiore a quella della luce visibile, per cui uno specchio tradizionale non può funzionare.
Per i raggi X di energia bassa (e quindi lunghezza d’onda alta) vengono costruiti specchi particolari, di cui parleremo in un’altra “curiosità”, ma a energie più alte di specchi proprio non se ne parla.
Esiste però un modo per registrare un’immagine senza lenti nè specchi e molti di noi l’avranno forse sperimentato da bambini: il foro stenopeico.
Una scatola da scarpe con un buchino e una pellicola fotografica dalla parte opposta.
La luce passa dal buco e impressiona la pellicola, formando un’immagine.
Funziona anche con i raggi X, basta sotituire alla scatola da scarpe un contenitore a prova di raggi X e alla pellicola uno strumento per rivelarli.
Però sorge subito un problema: attraverso un buchino passa ben poca luce e le sorgenti X in cielo sono molto deboli.
Si potrebbero fare due buchi: ciascuno proietta un’immagine. Le due immagini saranno identiche, ma traslate, per cui basterà sovrapporle. Ma anche due buchi sono pochi.
Esiste un modo di farne tanti, di buchi, e ricostruire l’immagine? .
La risposta è sì, basta che la distribuzione dei buchi sulla nostra “scatola da scarpe” non abbia ripetizioni, ovvero che nessuna disposizione dei buchi si ripeta.
Questo si può fare per esempio facendo una griglia casuale di casella piene e caselle vuote.
Ogni sorgente nel campo di vista del nostro “telescopio” proietta sul rivelatore un’immagine uguale a quella della griglia in modo corrispondente alla sua posizione.
Con un computer si può poi ricostruire un’immagine del cielo. È il principio della maschera codificata.
Lo strumento Burst Alert Catcher (BAT) a bordo del satellite Swift (vedi la curiosità di dicembre 2011), che vede una parte di cielo corrispondente al campo di vista di un occhio umano (uno solo, provate a chiudere l’altro per avere un’idea) proprio attraverso una maschera codificata casuale.
Funzionano allo stesso modo due strumenti sul satellite ESA INTEGRAL, anche se in modo un po’ diverso. Il primo, lo strumento IBIS, ha una maschera con le caselle vuote e piene non distribuite in modo casuale, ma secondo uno schema complesso che garantisce proprietà simili.
Il secondo (chiamato SPI) ha le caselle esagonali e non quadrate, ma il principio è esattamente lo stesso.
La configurazione migliore è quella con metà caselle piene e metà vuote.
La differenza con un telescopio ottico è semplice: nel telescopio ottico si accumulano tanti fotoni focalizzandoli tutti in un punto del rivelatore; nel telescopio a maschera codificata si accumulano tanti fotoni bloccandone la metà in modo intelligente e lasciando passare l’altra metà in modo che colpisca tutto il rivelatore, da cui poi si può ricostruire l’immagine del cielo.
Un vantaggio evidente di quest’ultima configurazione è che se si rompono dei punti del rivelatore (normalmente costituito da tanti rivelatori vicini, di cui qualcuno sicuramente smetterà di funzionare durante la vita del satellite) non succede niente di irreparabile, si perde soltanto un po’ di sensibilità.
Un altro vantaggio è che al contrario dei telescopi tradizionali si può osservare un grande campo di vista, aspetto cruciale di BAT che deve stare all’erta per rivelare lampi gamma che possono apparire in qualsiasi punto del cielo.
Anche lo strumento Wide Field Camera (WFC) sul satellite italiano BeppoSAX funzionava con una maschera codificata, proprio per avere un grande campo di vista.
Dato che i rivelatori però erano per raggi X di energie più basse, le caselle aperte della maschera erano più della metà e la struttura della maschera era molto complessa. È questo strumento che grazie al suo grande campo ha permesso il rapido puntamento degli altri strumenti di BeppoSAX e quindi di scoprire l’origine extragalattica dei lampi gamma (vedi curiosità di maggio 2011).




