La curiosità del mese a cura di Daniele Spiga
Negli ultimi due anni abbiamo assistito a diversi voli di navicelle Crew Dragon di SpaceX, che hanno portato degli astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), tra cui quello che ha portato la nostra AstroSamantha. Gli equipaggi ora indossano tute spaziali di nuova concezione, molto più leggere e confortevoli di quelle indossate dagli astronauti Apollo, per consentire la sopravvivenza del corpo umano nello spazio. Ma cosa accadrebbe a un astronauta che si trovasse nello spazio senza tuta spaziale? Diversi film di fantascienza si sono sbizzarriti a immaginare le cose più raccapriccianti, che probabilmente non corrisponderebbero alla realtà. Tuttavia, è abbastanza sicuro che se uscissimo dalla ISS senza la protezione di una tuta moriremmo nel giro di 2-3 minuti per l’assenza di ossigeno e per il freddo a -230 °C, se in ombra, o per il caldo a +120 °C, se esposti al Sole. Anche una tuta spaziale, però, non ci fornirebbe l’acqua e il cibo necessario per alimentare il nostro metabolismo. E in ogni caso, non ci proteggerebbe in maniera efficace dalle radiazioni cosmiche e solari che invece le nostre atmosfera e magnetosfera respingono ogni giorno per noi, senza che nemmeno diciamo loro grazie.
Eppure, non tutti gli esseri viventi della Terra sembrano essersi evoluti per vivere al calduccio, sotto una coperta d’aria, con tanta acqua fresca sottomano e difesi da uno scudo magnetico. Per molto tempo si è pensato che la vita fosse un fenomeno estremamente fragile, e questo è sicuramente vero per molte specie animali e vegetali che rischiano l’estinzione, quando l’habitat a cui si sono adattati subisce cambiamenti drastici. Ma diverse forme di vita microscopiche hanno sorpreso i biologi negli ultimi decenni, rivelandosi in grado di vivere in condizioni estreme (Figura 1), e perciò detti estremofili.
Ad esempio, avrete sentito parlare dei tardigradi: sono animaletti invertebrati che misurano meno di 1 mm (Figura 2), e sono diffusi su tutta la Terra, ma probabilmente nessuno li avrebbe degnati di uno sguardo, se non fosse per una loro caratteristica: sono difficilissimi da uccidere. Possono essere essiccati per decenni, congelati a -200 °C, compressi a 600 atmosfere o messi nel vuoto, esposti a altissime dosi di raggi UV… e in queste condizioni entrano in una sorta di “letargo” fino al ripristino delle condizioni normali. Dopodiché, riprendono a fare le loro cose come se nulla fosse successo. Nemmeno John Rambo o John McClane riuscirebbero a tanto!
Ma si possono fare altri esempi: sappiamo che la maggior parte dei batteri sopravvivono al congelamento (infatti, gli alimenti surgelati si conservano per mesi, ma appena li scongeliamo i batteri presenti in essi escono dall’ibernazione e ricominciano a degradarli), però in genere l’essiccazione o la bollitura riescono a ucciderli, ed è questo che ci permette di fare marmellate e conserve. Eppure, in alcune zone vulcaniche della Terra ci sono dei batteri (per esempio, Pyrococcus Furiosus o Acidobacterium Capsulatum) che riescono a vivere in sorgenti d’acqua bollenti e spaventosamente acide oppure ultra-salate. Sono in prevalenza batteri del regno degli Archea, che per effetto della pressione evolutiva in ambienti estremi, hanno evoluto la capacità di proteggere le loro strutture cellulari dall’attacco dell’ambiente, con una efficienza decisamente sorprendente.
E ci sono anche batteri in grado di resistere a ben peggio: ad esempio Deinococcus Radiodurans (Figura 3) è un batterio che sopravvive tranquillamente a dosi di radiazioni gamma di 5000 Gy (si legge gray). Per confronto, una dose di “soli” 5 Gy sarebbe certamente letale per noi umani: ordinariamente, questo genere di radiazioni determina la rottura del DNA inibendo così la sintesi delle proteine e causando la morte delle nostre cellule. L’unico modo per proteggersi è interporre diversi centimetri di piombo tra noi e la sorgente di radiazioni, ma siccome D. Radiodurans non ha una tuta di piombo, si conclude che questo piccolo batterio ha una capacità incredibile di auto-riparare il proprio DNA (oltre al “trucchetto” di conservarne 3 copie di backup). Ah, e naturalmente sopravvive alla disidratazione, agli acidi, al congelamento, e anche nel vuoto. Dal 2015 sono stati tenuti dei campioni di questo batterio per tre anni all’esterno della ISS, e sono sopravvissuti. Probabilmente, sarebbe uno dei pochi esseri viventi che riuscirebbe a scampare a una catastrofe nucleare. Inutile dire che i suoi meccanismi di auto-riparazione sono allo studio per le ricadute che possono avere in medicina, e alcuni sono perfino riusciti a fargli eliminare sostanze tossiche nei depositi di rifiuti radioattivi (!). Insomma, è un vero “duro” al punto da soprannominarlo “Conan il batterio”. Fortuna che è innocuo per la nostra specie, o sarebbe un avversario davvero temibile.
A questo punto, avete capito: questi microscopici esserini sarebbero ottimi candidati per un viaggio interplanetario, dal momento che sembrano possedere tutte le caratteristiche che a noi mancano per sopravvivere nell’ambiente ostile dello spazio. Al tempo stesso, ci mostrano come la vita sia un fenomeno tenace e adattabile, che prolifera in condizioni favorevoli ma sa resistere nelle avversità. Questo potrebbe significare che la vita su un altro pianeta, magari, è un fenomeno che si instaura con una certa facilità, non appena le condizioni diventano un po’ meno che impossibili? Allora, forse, il famoso fattore FL nell’equazione di Drake è veramente uguale a 1?
Ma c’è un’altra domanda, ancora più interessante: come mai questi organismi hanno investito così tanto in capacità che in generale non utilizzano? Tanto per dire, nel nostro mondo non ci sono ambienti naturali ad alte dosi di radiazioni o in vuoto, quale pressione evolutiva li ha spinti se non l’effettiva necessità di sopravvivere nello spazio? D. Radiodurans non potrebbe essere il discendente di una forma di vita giunta da un altro pianeta a bordo di un frammento di roccia caduto sulla Terra in un impatto meteorico? L’ipotesi è meno strana di quello che sembra: sulla Terra arrivano regolarmente frammenti di Marte, generati dalla collisione di piccoli asteroidi e proiettati nello spazio interplanetario (Figura 4). Dopo un viaggio di alcuni milioni di anni, questi frammenti cadono sulla Terra, conservando il loro contenuto “ibernato” al loro interno, e alcuni ritengono di avere individuato in almeno una di esse (la famosa ALH 84001 ritrovata in Antartide, Figura 5) dei batteri marziani fossilizzati.
È forse così che la vita è giunta sul nostro pianeta 3.8 miliardi di anni fa, portata da super-batteri ibernatisi in un pezzo di roccia marziana alla deriva nello spazio? Le prime cellule potrebbero essere comparse su Marte per poi estinguersi, mentre ha proliferato sulla Terra grazie all’abbondanza di acqua liquida, alla presenza di una magnetosfera, e di un equilibrato effetto serra per regolare la temperatura (Figura 6)? I rover su Marte (Curiosity, Perseverance, e in futuro Rosalind Franklin) stanno cercando le risposte a questa grande, cruciale domanda. Pensateci: la scoperta anche solo di un singolo batterio marziano cambierebbe totalmente la nostra visione del mondo e della vita, e ancora di più se scoprissimo che quel batterio è un lontanissimo progenitore sia di Conan il batterio che della nostra specie. E sarebbe ancora più incredibile se, alla fine, venisse fuori che quel nostro microscopico antenato ha anticipato il nostro programma spaziale di alcuni miliardi di anni.
Letture consigliate:
Giovanni Bignami e Patrizia Caraveo, I marziani siamo noi, Zanichelli
MEDIA INAF, Così è sopravvissuto Conan il Batterio https://www.media.inaf.it/2020/11/06/deinococcus-radiodurans-iss/
MEDIA INAF, Molecole organiche nel meteorite marziano
https://www.media.inaf.it/2023/01/16/molecole-organiche-nel-meteorite-marziano/