La curiosità del mese a cura di Daniele Spiga
Risale al filosofo greco Pitagora (VI sec. a.C.) l’idea che il Cosmo (parola che in greco significa infatti “ordine”) sia un sistema perfettamente organizzato, basato sulla forma sferica e sul moto circolare, garanzia di stabilità ed eterno ritorno alle origini. Pitagora aveva infatti due grandi passioni: i numeri interi e la musica, e nella sua visione le due nozioni si fondevano per spiegare l’armonia dell’Universo. Infatti, Pitagora si era accorto che le lunghezze delle corde di una cetra (di uguale spessore e tensione), per essere in accordo fra loro, dovevano seguire combinazioni di rapporti di numeri interi piccoli, come 3:4 (intervallo di quarta) e 2:3 (intervallo di quinta). Pitagora non se ne rendeva esattamente conto, ma questo accade perché le corde possono vibrare non soltanto alla frequenza fondamentale che dà il nome alla nota, ma anche a tutti i suoi multipli (detti armonici). Quando le due corde hanno una di queste frequenze in comune, possono risuonare, ovvero comunicarsi la vibrazione a distanza.
Volete verificarlo? Non serve che andiate online a ordinare una cetra… prendete una chitarra ben accordata, pizzicate con forza la corda più sottile, il Mi cantino (329.6 Hz), e fermatela subito: sentirete un’eco della stessa nota provenire dalla corda più spessa, il Mi basso, che è intonato due ottave sotto (82.4 Hz). Il motivo è che il Mi basso può vibrare anche al quarto armonico, cioè a una frequenza quattro volte più alta, che è sempre un Mi, ma due ottave sopra e che perciò è entrato in risonanza con il Mi cantino.
Alla fine del XVII secolo, la scala musicale basata su rapporti frazionari tra frequenze fu abbandonata in favore del sistema che usiamo tuttora oggi (detto temperamento equabile, basato su frequenze con rapporti irrazionali).
Ma il concetto di risonanza rimane: in Fisica, la risonanza si verifica quando due sistemi interagiscono oscillando a frequenze in rapporti semplici (come 1:1, 2:1, 3:2…), e se uno dei due sistemi è in grado di forzare il secondo alla sua frequenza o a uno dei suoi multipli, il secondo inizierà a oscillare con ampiezza via via crescente, teoricamente fino alla rottura. In Ingegneria, le risonanze sono solitamente la causa di un sacco di guai: un ponte sospeso che entri in risonanza con una delle frequenze del traffico che lo percorre (ad esempio, dei soldati in marcia) o con le turbolenze del vento può crollare (è accaduto al Tacoma Bridge nel 1940). Oppure, quando si progetta un telescopio spaziale, si deve assolutamente evitare che le sue componenti entrino in risonanza con le frequenze prodotte dal motore del lanciatore, o del telescopio… resteranno solo i frammenti. Ma se ben usate, le risonanze fanno cose meravigliose: pensate alla risonanza nucleare magnetica che permette di visualizzare l’interno del nostro corpo con incredibile risoluzione in maniera indolore e non invasiva, facendo risuonare i nuclei dei nostri atomi tramite onde radio. E anche per gli astronomi, le risonanze sono qualcosa di fantastico.
In fondo, Pitagora aveva ragione: un sistema planetario è una sinfonia di moti periodici, in cui ogni orbita viene percorsa da un pianeta con una frequenza che dipende dalla sua distanza dal Sole. In determinate condizioni, i moti orbitali, o di rotazione, o di precessione, possono sincronizzarsi su frequenze multiple fra loro, ed è questa sincronia che genera una serie di fenomeni interessanti.
Ci sono, ad esempio, le risonanze tra il moto di rotazione e il moto orbitale, generate dalle forze di marea. Abbiamo detto varie volte che la rotazione della Luna è sincrona, cioè ha la stessa frequenza del suo moto orbitale (risonanza 1:1). Questo le consente, oltre che a rivolgerci sempre la stessa faccia, di muoversi nelle forze di marea della Terra che tenderebbero a deformarla, senza dissipare energia in attriti interni. Ma anche il pianeta Mercurio risente delle intense forze di marea da parte del Sole, e quindi tutti gli astronomi si aspettavano che fosse essere in rotazione sincrona,[1] proprio come la nostra Luna. L’idea era rinforzata dall’osservazione che Mercurio rivolge alla Terra sempre la stessa faccia ogni volta che si va a interporre tra essa e il Sole. Negli anni ’70, però, il matematico italiano Giuseppe “Bepi” Colombo osservò che Mercurio ha un’orbita fortemente eccentrica e pertanto tende alla rotazione sincrona soltanto quando è nel punto più vicino al Sole della sua orbita e si muove alla massima velocità. Il risultato è che Mercurio riesce a fare un giro e mezzo su sé stesso ad ogni orbita, alternando le due facce rivolte al Sole ad ogni passaggio al perielio (Figura 2). Perciò, la risonanza che ne risulta è 3:2. Una curiosa conseguenza è che siccome Mercurio e Terra si trovano in congiunzione inferiore ogni 116 giorni e poiché – per pura coincidenza – questo periodo è uguale al doppio del periodo di rotazione di Mercurio (58 giorni), quest’ultimo ci mostra la stessa faccia, sì, ma dopo avere completato due rotazioni sul suo asse, non una sola! Insomma, Bepi Colombo aveva ragione, e anche solo per questo è giusto che gli si stata intitolata la sonda omonima.
Ci sono poi le risonanze di periodo orbitale, (dette anche risonanze di moto medio) che si verificano ogni volta che due corpi orbitano intorno a uno stesso centro con periodi in rapporti semplici. E non serve andare tanto lontano per trovarne un esempio: avete mai notato che gli anelli di Saturno sono intervallati (Figura 3) da numerose zone “vuote”? Consideriamo per esempio la più grande fra esse, la divisione di Cassini ben visibile in Figura 3: i piccoli frammenti ghiacciati che formano gli anelli, se orbitassero nella divisione di Cassini, completerebbero un’orbita in circa 11 ore, che è la metà del periodo orbitale di Mimas, la luna ghiacciata che orbita poco fuori dagli anelli principali. Pertanto, ogni due orbite si troverebbe dalla stessa parte di Mimas, venendone attratto un po’ ogni volta, ad intervalli regolari e sempre nella stessa direzione, proprio come quando si spinge un’altalena… e allora, l’orbita del frammento, inizialmente circolare, manterrebbe lo stesso semiasse maggiore (e quindi lo stesso periodo orbitale, rimanendo in risonanza) ma diventerebbe gradualmente e inesorabilmente eccentrica, fino a collidere con Saturno! Dunque, l’effetto complessivo di questa risonanza 1:2 è quello di destabilizzare la divisione di Cassini. Altre divisioni negli anelli, anche se meno marcate, si originano sempre dalle risonanze… come la divisione di Colombo (sempre dedicata al nostro Bepi), stavolta dovuta a una debole (1:60) risonanza con Titano.
Eppure, come spesso capita in Fisica, uno stesso fenomeno può risultare in due effetti totalmente diversi: per esempio, i satelliti di Giove Io, Europa, e Ganimede, i cui periodi orbitali sono rispettivamente 1.77, 3.55, e 7.15 giorni, che stanno nella proporzione 1:2:4 (Figura 4), e che certamente non hanno questi valori per caso, ma è una conseguenza – ancora una volta – della reciproca attrazione gravitazionale. Questa “risonanza a tre” (risonanza di Laplace), oltre a impedire che le orbite di Io e Europa si circolarizzino (e quindi obbligandole a oscillare nelle formidabili forze di marea di Giove, generando enormi attriti interni che rendono Io una luna vulcanica e fondono il ghiaccio di Europa sotto la sua crosta ghiacciata) ha un effetto stabilizzante sulle loro orbite. Simili risonanze stabilizzanti si verificano con altri satelliti di Saturno (Encelado/Dione 1:2, Titano/Iperione 3:4, …).
Ovviamente, le risonanze di periodo orbitale si fanno sentire anche su distanze molto più grandi: tramite lo stesso meccanismo che ha creato le divisioni negli anelli di Saturno, Giove con la sua gravità ha svuotato la fascia principale degli asteroidi in corrispondenza alle distanze dal Sole corrispondenti a periodi di 4, 4.8, 5.1, e 6 anni, che andrebbero in risonanza con il suo periodo di 12 anni. Tali regioni “proibite” sono oggi chiamate lacune di Kirkwood (Figura 5). Le orbite degli asteroidi che ne facevano parte sono diventate così eccentriche fino a superare il limite di Roche del Sole, oppure fino a collidere con Giove, oppure venire espulse dal sistema Solare. Una parte di essi, invece, è rimasta nel Sistema Solare, ma su orbite così eccentriche da intersecare le orbite dei pianeti interni, tra cui quella della Terra (i famosi Near-Earth Asteroids). Infine, un altro caso ancora più complicato è rappresentato da asteroidi come Toutatis, che sono in risonanza 1:3 con Giove, ma anche 4:1 con la Terra. Ma… gli asteroidi fuori dalle risonanze? Non si avvicinano periodicamente anche loro a Giove? Certamente, ma in questo caso la forza di attrazione punta ogni volta in una direzione diversa e quindi l’effetto è mediamente zero sul lungo termine. E curiosamente, gli asteroidi Troiani (1:1) e gli asteroidi della famiglia Hilda (2:3) sono stabili proprio perché tali rapporti consentono loro di mantenersi il più possibile lontani dal gigante gassoso (Figura 6).
Il caso di Hilda non è l’unico nel sistema solare: su distanze ancora più ampie, troviamo numerosi corpi minori in risonanza stabilizzante con altri pianeti giganti (Figura 7). Il caso più famoso è quello dell’ex-pianeta Plutone, che come ¼ dei membri noti della fascia di Kuiper, si trova in risonanza 3:2 con Nettuno (i cosiddetti Plutini, come Orco e Issione). Anche l’orbita di Plutone è stabile per periodi di milioni di anni grazie al fatto che l’orbita risonante lo mantiene sempre ad almeno 17 unità astronomiche (UA) da Nettuno. Ce ne sono anche altri in risonanza 2:1 con Nettuno, detti Twotini. Ma ce ne sono molti che non sono in risonanza con nessun pianeta del Sistema Solare, e vengono chiamati “oggetti classici della fascia di Kuiper” oppure, più brevemente, Cubewani (dal nome del primo scoperto di questa famiglia, 1992 QB1, ora rinominato Albione). Altri esempi di Cubewani sono Quaoar, Haumea, e Makemake. E infine, proprio come nella fascia di asteroidi, anche nella fascia di Kuiper ci sono delle lacune dovute a risonanze destabilizzanti: per esempio, si trovano pochissimi asteroidi con orbita avente semiasse maggiore tra 40 UA e 42 UA, in corrispondenza della risonanza 5:3 con Nettuno. Naturalmente, le risonanze orbitali diventano sempre più deboli man mano che ci allontaniamo da Nettuno, in particolare all’addentrarsi nel disco diffuso, (tra 50 UA e 150 UA, il cui rappresentante più famoso è Eris) le cui orbite sono molto più eccentriche ed inclinate, fino a sfumare nella nube di Oort (1000 – 100000 UA?) dove le risonanze coi pianeti sono ormai insignificanti.
Ovviamente, non bastano questi esempi per descrivere in pieno lo “zoo” delle risonanze planetarie. Ce ne sono alcune che non ci si sarebbe mai aspettati: come la risonanza tra il periodo di oscillazione del piano orbitale di Plutone e il periodo di variazione della sua eccentricità, detto effetto Kozai (ma questo meccanismo è piuttosto complicato, quindi non ve la descrivo questa volta). Oppure, la risonanza fra l’orbita di Nettuno e l’inclinazione dell’asse di rotazione di Saturno (che non ho mai capito neppure io …). Vi accenno però al fatto che le risonanze, naturalmente, esistono anche nei sistemi extrasolari: è dell’anno scorso la scoperta di un sistema di ben sei pianeti in risonanza di periodo orbitale intorno alla stella HD 110067 (Figura 8). E sebbene rari, non c’è motivo di pensare che non se ne possano trovare in tutto l’Universo.
E pensare che la comprensione di questi complicato aspetto della dinamica planetaria è iniziata dall’osservazione delle vibrazioni di uno strumento a corde, 2600 anni fa. Da allora, ne abbiamo fatta di strada.Che ne dici, Pitagora?Siamo stati bravi?
[1] Ad esempio, tale convinzione era presente nel romanzo di Isaac Asimov “Lucky Starr e il Grande Sole di Mercurio” (1956).